Piero Cademartori – Memory non deve morire

Memoria e morte paiono essere in antitesi (e infatti memory non deve morire), l’una presuppone la cancellazione dell’altra. Ma anche l’una pare essere l’ultima ipotesi, l’ultima possibilità di sopravvivenza dell’altra. La morte acquista un senso nella memoria, si sostanzia nel ricordo di chi vive, lascia un grumo di pensiero tanto più spesso quanto la memoria è ampia. E la memoria diventa atto vitale dopo una morte, unico appiglio ma anche strumento per amplificare morti che, nel loro compiersi, apparirebbero quasi casuali, inutili, talvolta sgarbi a vite intense, oppure atto atroce e tremendo per vite che non volevano farsi storia.
L’opera di Paolo Lorenzo Parisi e Loredana Ginocchio, Memory non deve morire, vuole ridare nuovo senso alla memoria e alla morte, aprire uno squarcio, un taglio profondo, spesso doloroso, sull’ineluttabilità della morte, sull’ipertrofia di memoria che talvolta segue le morti.
L’opera si fonda su un percorso di senso che coinvolge diverse percezioni, diverso immaginario che abita dentro ognuno di noi. E’ dalla volontà di cancellare un senso, una memoria, di “uccidere” un’espressione, da cui gli artisti muovono per rinsaldare il filo che lega ogni atto alla storia. Ma lo fanno con storie di morte, altrettanto atroci uccisioni, tragiche cancellazioni, inesorabili eliminazioni di senso e di storia.
Nel 2008 Genova era in attesa della visita di papa Benedetto XVI, una visita piena di significati non solo religiosi e dai risvolti importanti per la città. L’amministrazione comunale intese cercare, per quanto possibile, di rendere la città più pulita, priva di quelle scorie che potessero in qualche modo urtare i sentimenti dei tanti pellegrini che certamente sarebbero accorsi per incontrare, ascoltare, e soprattutto vedere, il pontefice e che avrebbero potuto recare disturbo alla solenne visita, o più semplicemente far apparire la città come poco attenta a quell’evento certamente storico.
Tra i vari interventi, uno prevedeva la cancellazione, o meglio lo “sbianchettamento”, delle tante scritte – spesso ironiche, oscene, iconoclaste, furiose o solo stupide – che erano presenti in alcuni sottopassi della città. Forse perché non provvisti di altri mezzi, o solo per far prima, invece di una bella ripulitura dei muri, gli addetti poterono solo ricoprire con una patina bianca tutte le scritte, fornendo così i muri dei sottopassi di “buchi” di espressione, evidenti rattoppi a un discorso mancato, “peccette” un poco infantili su quanto qualche mano ignota aveva voluto vergare, su quanto il dire popolare – goliardico, irrispettoso, tifoso o politico – aveva voluto rendere visibile.
Ecco, Parisi e Ginocchio partono da quelle cancellazioni, da quei buchi bianchi apparsi quasi come d’incanto su alcuni muri della città, per interrogarsi su come la memoria può d’improvviso sparire, su come l’espressione, per quanto brutale, possa essere obliata, annullata altrettanto brutalmente. E su come poter dare nuovo senso, nuova memoria, nuova espressione a quel bianco coprente.
Da anni Paolo Lorenzo Parisi, nella sua ricerca visuale, propone la memoria come elemento di riflessione. Una memoria che parte da un immaginario condiviso per essere trasposta su superfici, elementi e oggetti, fornendo nuovo senso a immagini e icone  che la nostra memoria ha collocato in buon ordine nelle caselle che il racconto della storia ha loro attribuito. Portare fuori, decontestualizzare, dotare di senso altro è quanto Parisi fa con il suo lavoro artistico.
Prendiamo per esempio le “torte d’artista” – una delle forme espressive e opere dell’arte di concetto di Parisi più recenti – dove un oggetto della quotidianità che subito richiama il gusto, il piacere magari più intimo e antico del cibarsi con gioia, ci viene proposto con superfici che riproducono le facce più feroci del potere, per darci poi altro piacere nel distruggere – a morsi, è proprio il caso di dire – quel repertorio di icone che ogni cosa richiamano alla memoria, meno che “piacere”.
Così, in Memory non deve morire, su quei riquadri bianchi disposti casualmente su delle superfici, l’artista, che si avvale della creatività fotografica di Loredana Ginocchio, ha voluto ricollocare il nostro immaginario di morti che appartengono alla memoria collettiva, condivise nel senso che la storia – ufficiale o popolare – ha voluto loro riconoscere. Morti che sopravvivono nella memoria, memoria che si rifà alla morte per tenersi viva.
L’opera vive del nostro immaginario e si fa concreta attingendo dalla nostra memoria. Le icone che mostra sono il racconto di atroci tasselli di storia e di memoria, o solo frammenti decontestualizzati messi lì a trovare una nuova collocazione e un diverso senso, ma non possono prescindere dalla memoria. Chi osserva, interpreta l’opera attraverso il proprio ricordo di quel dato fatto, lo contestualizza prima di tutto dentro il proprio sguardo, nella percezione e ricostruzione – storica, sociale, ideale – che quel tassello che i due artisti propongono ricrea nel guardare, nel riflettere, in un rimbalzo tra conoscenza, memoria e sensazione che l’opera complessiva intende offrire.
Se la pittura riconosce all’artista la capacità di elaborare immagini, paesaggi, scene di vita a partire da un codice condiviso con i propri contemporanei – si veda in proposito e per esempio il bel saggio di studio Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento di Michael Baxandall (Piccola Biblioteca Einaudi) – e la staticità dell’opera trova dimensione scenica nella memoria e nella conoscenza degli “sguardi”, nell’interpretazione che ognuno è in grado di attribuire partendo da un codice comune e condiviso tra artista e fruitore, così l’opera di Parisi e Ginocchio si rifà a un codice percettivo e interpretativo che passa dalla comune conoscenza veicolata dai media, da una memoria collettiva e condivisa, per disporsi in nuove icone che vogliono loro stesse diventare “patrimonio comune”, percezione globale, memoria diffusa. Perché poi l’arte, in primo luogo, comunica e significa, o comunque quella di Parisi e Ginocchio è un’arte che si prefigge di sedimentare, prima ancora che lanciare, un messaggio preciso, univoco, forte di una forza evocativa e visiva non equivocabile. E’ il “dire” dell’artista, è la sua capacità di lasciare segno, di farsi storia e interprete del contemporaneo. Di farsi, soprattutto, memoria. Che, ci ricorda, non deve morire.

Piero Cademartori